Una chiave ignorata per la convivenza fra diversi

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 15 aprile 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

Una breve storia come premessa. Siamo negli anni Novanta a un’assemblea studentesca di una facoltà di architettura di una città d’arte italiana e un giovane alto, atletico e sorridente di origine africana ha preso la parola dopo una collega dai tratti nordeuropei con lunghissimi capelli chiari, per dire la sua sullo stesso tema: il multiculturalismo nella società contemporanea e il banco di prova della cultura universitaria per le politiche di integrazione. I due, che hanno presentato due aspetti differenti della stessa idea, continuano in una conversazione personale a scambiarsi opinioni, poi vanno avanti al fast food preferito, e ancora parlano, in incontri successivi, fino a diventare amici e poi innamorarsi. Per molti anni condividono tutto, realizzano il desiderio di lavorare insieme e si sposano: agli occhi di amici, parenti e conoscenti sono l’incarnazione di un ideale realizzato e un esempio da proporre a tutti coloro che nutrono riserve, diffidenze, paure o veri e propri pregiudizi nei confronti delle persone di provenienza africana o asiatica[1].

I due figli, nati a distanza di un paio d’anni l’uno dall’altro nel civilissimo terzo millennio, hanno preso interamente dal padre e sembra che abbiano una pelle più scura della sua, ma il loro eloquio in perfetto italiano è nutrito di metafore buffe o brillanti e impreziosito da raffinate locuzioni, tutte apprese dalla madre. Alle scuole elementari hanno tanti amici e, fino alle scuole medie, non hanno neppure un lontano sentore di poter essere discriminati. Ma poi, improvvisamente ed esponenzialmente, diventano bersaglio delle più varie forme di discriminazione, disprezzo, denigrazione, esclusione, avversione e odio. La difficoltà di affrontare un mondo improvvisamente cambiato intorno a loro e non efficacemente neutralizzato dal rifugiarsi nell’affetto familiare, genera un malessere tale da portare entrambi, all’età del liceo, in psicoterapia.

In questi casi, la psicoterapia un tempo privilegiava il rinforzo dell’Io, oggi, nelle prassi cognitivo-comportamentali, si focalizza maggiormente l’attenzione sulle relazioni, ma, in ogni caso, i due ragazzi hanno deciso un programma d’azione comune: riprenderanno le idee dei loro genitori, studieranno l’origine del razzismo e insegneranno ai coetanei tutto quanto è necessario conoscere e capire, per sviluppare una sensibilità più matura e civile.

 

Come nasce il razzismo nella mente del singolo? E nella storia dei popoli? La risposta alla prima domanda sembra abbastanza semplice: dal paradigma psicologico della reazione difensiva che porta una persona che si sente minacciata da qualcuno o prova avversione per qualcuno, a far rientrare il minaccioso o il detestato in una categoria umana negativa e diversa da quella cui ritiene di appartenere.

Il meccanismo psicologico automatico e involontario, per definizione inconscio, è prossimo a quello della razionalizzazione, e permette al soggetto una finta oggettivazione di un proprio sentimento/giudizio negativo su una persona mediante l’inclusione in una classe negativa. Allo stesso tempo il soggetto, attraverso la rassicurante identificazione opposta con la categoria umana positiva, ottiene l’effetto di percepire un supporto identitario, ossia una sorta di espansione dell’Io per appartenenza, in questo caso, alla “razza giusta”; ossia all’insieme, implicitamente considerato di volta in volta, più virtuoso, più civile, di maggior valore.

La reazione è accostabile a quella che induce a ingiuriare qualcuno che arreca molestia o frustrazione, e come processo psicologico è identico a quello di inclusione dell’altro in una qualsiasi altra categoria umana negativa, sia che il valore di negatività della classe sia eticamente fondato, come quando si dà del ladro a qualcuno, sia che costituisca un giudizio erroneo o falso, come nel caso del razzismo o, nei casi più veniali, quando si denigra qualcuno attribuendogli l’identità di tifoso di una squadra sportiva rivale.

Molto più difficile è riconoscere e definire come e quando nasce realmente il razzismo come seme dell’ideologia razzista nella storia. Fin nelle raccolte documentali delle epoche più remote è possibile rintracciare episodi di razzismo, ossia di discriminazione, odio e inimicizia su base sostanzialmente etnica, ma gli studiosi che hanno indagato a fondo questo argomento non ritengono significativi tali fatti ed eventi remoti. Probabilmente perché la loro idea di razzismo è calibrata sul profilo assunto nel Novecento dalle politiche ispirate all’odio razziale, con la persecuzione nazista degli Ebrei quale esempio emblematico. Personalmente ho sempre ritenuto che l’etnocentrismo esasperato di ogni popolo costituisca già una forma preconcetta di discriminazione verso tutti gli altri popoli. Ma nelle indagini di impronta culturale sociologica – come vedremo più avanti – si tende a considerare l’etnocentrismo come un difetto generico che può contribuire allo sviluppo del razzismo in alcune particolari condizioni.

La maggioranza assoluta degli studiosi considera il pregiudizio razziale un fenomeno relativamente recente nella storia[2] e, seguendo Tzvetan Todorov, si individuano gli Spagnoli del XVI secolo quali colpevoli di aver elaborato una costruzione ideologica per giustificare il genocidio perpetrato nel Nuovo Mondo dai conquistadores.

Molti autori sono andati oltre, identificando in Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés il principale responsabile del pensiero razzista a sostegno del genocidio. A testimonianza dell’esistenza di una storiografia ideologizzata che ha assegnato il ruolo di “buoni” o “cattivi” con superficialità senza conoscere le biografie e le opere dei protagonisti delle vicende narrate, si può citare il pur attento e competente sociologo e saggista Luciano Pellicani che, fidandosi di queste fonti, fa suoi i loro contenuti e scrive: “Gonzalo Fernandez de Oviedo si spinge più oltre, sino ad anticipare la dottrina della ‘soluzione finale’. A suo giudizio, gli indios erano degli oggetti inanimati e andavano trattati come tali: si poteva fare di essi l’uso che si credeva; li si poteva anche eliminare, qualora risultasse conveniente farlo. Di più: dal momento che la loro esistenza costituiva un ostacolo all’avanzata della Civiltà e al trionfo della Vera Fede, era opportuno annientarli; anzi, era doveroso, poiché in essi c’era qualcosa di satanico”[3].

Per quanto abbia cercato tra le copie anastatiche dei documenti dell’epoca e le biografie più note, non sono riuscita a trovare alcuna traccia storica delle gravissime affermazioni di Pellicani su Gonzalo Fernandez de Oviedo, che personalmente conoscevo in tutt’altra luce; speravo almeno di trovare qualche elemento che mi consentisse di comprendere come fosse avvenuto un plausibile “scambio di persona”, ossia un ipotetico errore di identità. In ogni caso, riporto di seguito un breve racconto biografico, storicamente documentato, che delinea un profilo del tutto opposto a quello di un “fautore della soluzione finale”.

 

La storia di Gonzalo Fernandez da alcuni confuso con i conquistadores da lui denunciati. Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés[4] naturalista, studioso anche di etnologia e archeologia, è stato soprattutto uno storico e, in quanto tale, aveva il raro pregio di una grande abilità nel disegno, che gli consentiva di illustrare le sue opere con ritratti dei personaggi e riproduzioni dei paesaggi. Nel suo periodo trascorso in Italia fu prima a Genova e poi a Mantova dove, grazie ai buoni uffici di Ludovico il Moro, conobbe Leonardo da Vinci, che ebbe modo di apprezzare le sue illustrazioni; ancora alla corte dei Gonzaga fece la conoscenza di Andrea Mantegna, celebre pittore cognato di Giovanni Bellini. Si traferì a Roma, alla corte di Papa Alessandro VI Borgia e, grazie all’amicizia col suo giovane nipote cardinale, Juan Borgia, compì studi secondo la tradizione della cultura italiana; infine fu a Napoli, alla corte di Federico I. Tornato in Spagna, fu incaricato da Ferdinando il Cattolico di ricostruire la cronologia delle successioni e di tutti gli eventi storici riguardanti i re di Spagna, Napoli e Sicilia[5].

Nel 1494 aveva incontrato i figli di Cristoforo Colombo e si vuole che dalla loro conoscenza sia nato il desiderio di andare in America. Dedicò il suo primo viaggio prevalentemente all’attività storico-artistica, realizzando numerosi disegni del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti. In quel periodo entrò in polemica con Bartolomé de Las Casas che, protestando contro le leggi coloniali spagnole confidava nella piena libertà dei nativi, mentre lui prefigurava la possibilità di proporre una forma di organizzazione sociale basata sul modello dell’Ordine di San Giacomo (Santiago) di Compostela, la cui regola fu scritta dal Cardinale beneventano Alberto Morra, futuro Papa Gregorio VIII, e che in quel periodo Papa Adriano VI aveva unito alla corona spagnola. Probabilmente Oviedo, con l’idea di organizzare il popolo sulla base di una regola agostiniana e assicurando ai nativi carriere da cavalieri, voleva incentivare la conversione al cristianesimo e il progresso civile del popolo, ma poi si rese conto dell’inattuabilità del progetto.

Gonzalo Fernandez apprese le nefandezze degli amministratori coloniali e denunciò al sovrano gli abusi, i soprusi e gli orrendi crimini commessi contro gli Indios dal governatore di Panama e Nicaragua Pedro Arias Davila; e quella sua ferma e severa condanna lo riconciliò con Bartolomé de Las Casas, che così aveva definito Pedro Arias: “Uno sciagurato governatore, crudelissimo tiranno, spietato e senza alcuna saggezza”[6].

Tornò in America, dove sperava di essere protetto dal governatore Lope de Sosa, ma questi era morto durante la traversata, prima dell’approdo alle nuove terre, lasciandolo da solo in balia del vendicativo Pedro Arias. Gonzalo Fernandez ebbe vita difficile, costantemente insidiato dalle manovre di un subdolo avversario e messo alla prova da innumerevoli avversità, che fronteggiava a fatica o con buona sorte, come quando riuscì a sfuggire a un attentato. Ma nulla poté per evitare la morte del figlioletto di otto anni e poi della moglie.

Rientrato in patria e ricevuto a corte, denunciò ancora una volta la condotta con i nativi di Pedro Arias, da sempre condannato da Las Casas, ma ottenne dal sovrano solo l’ascolto e la condivisione della riprovazione, senza alcun fatto concreto. Presentò ufficialmente il suo Sumario o De la natural historia de las Indias, ricevendo apprezzamento, elogi, fama e poi l’incarico di governare Cartagena de Indias. Ma, giunto nel nuovo territorio, si trovò inaspettatamente ancora di fronte Pedro Arias; così, durante le vicende che seguirono, chiese aiuto al governatore del Nicaragua. Infine, nel 1532 fu costretto a ritornare in Spagna, dove Carlo V, informato di tutti gli accadimenti, gli conferì il nuovo titolo di Cronista Oficial de las Indias[7]. L’anno dopo fu Alcalde della fortezza di Santo Domingo e qui, l’operato criminoso del Governatore di Santa Marta, lo costrinse a tornare di nuovo in patria per denunciarlo a Carlo V e chiedergli di prendere provvedimenti; ma il tempo trascorso per la durata del viaggio fu tale che, intanto, sopraggiunse la morte del reo. Nelle sue opere espresse dure condanne per gli abusi dei conquistadores e, nella guerra civile contro Francisco Pizarro, conquistatore del Perù e fondatore della città di Lima, fu dalla parte del suo oppositore Diego de Almagro.

Dunque, sembra evidente che quanto è attribuito da Pellicani a Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés debba essere riferito ad altri soggetti, più simili e forse prossimi a Pedro Arias Davila.

La storia è sempre materia complessa e la maniera peggiore di affrontarla è ridurla a un paradigma ideologico del proprio tempo: in questo caso fra le difficoltà vi è la mancanza di cronache dei fatti scritte dai nativi, l’attendibilità dei cronisti al seguito delle spedizioni e l’ambiguità del termine conquistadores che era riferito a soldati, navigatori, esploratori, avventurieri, mercenari e nobili decaduti in cerca di un riscatto e di un patrimonio[8]. E poi la complessità delle vicende: basti pensare ai Famosi Tredici (Los treces de la fama) guidati da Francisco Pizarro e ispirati ai Nove Prodi della letteratura cavalleresca; ad Alvaro Nuñez Cabeza de Vaca impegnato a comunicare a gesti con i nativi che comprendevano perfettamente la sua semìa sostitutiva; alla conquistadora Ines de Suarez diventata un’eroina popolare[9] per aver difeso, spada in pugno alla testa di pochi armati Spagnoli e Indios, la città di Santiago già quasi rasa al suolo dall’invasione dei Mapuche[10]; alla decapitazione di Vasco Nuñez de Balboa da parte di Pedro Arias Davila; o, infine, allo scopritore della Florida, Juan Ponce de Leon, accolto in amicizia dal capo taino Agueybanà, ma causa involontaria della morte di tanti Indios per aver portato, con i suoi marinai, agenti patogeni di malattie europee contro le quali i nativi non avevano protezione immunitaria.

In ogni caso, tutti i protagonisti di quelle vicende appartenevano a realtà molto diverse da quella in cui siamo immersi oggi: gli Europei uscivano da mille anni di Medioevo e gli Americani originari non avevano avuto un passato di civiltà antiche accostabili a quelle del bacino del Mediterraneo[11].

 

Spunti storici sulla realtà antropologica in cui nasce il razzismo dei conquistadores. Se andate in visita all’Ilha do Bernardo, perla di un arcipelago di oltre trecento isole disabitate e incantevoli di fronte alla costa dello stato di Rio de Janeiro, la guida vi narra una storia all’origine del suo nome: un missionario di nome Bernardo, non si sa se Italiano, Portoghese o Spagnolo, venne a conoscere i nativi dell’isola e, secondo l’esempio del Signore, si fece servo di quel piccolo popolo, adoperandosi per tutti e portando con impegno, energia e gioia il messaggio di amore evangelico. Gli isolani lo ammiravano e decisero di diventare come lui: un giorno lo uccisero, lo tagliarono a pezzi, lo arrostirono sul fuoco e lo mangiarono per assumerne le qualità.

Gli scopritori delle nuove terre non avevano fatto i conti con l’antropofagia, comune nel continente americano a quell’epoca e tra le cause dell’implosione della civiltà Maia. Todorov, nella sua storia della conquista del Messico, cita lo sconcerto del frate domenicano Tomas Ortiz: “Mangiano, sulla terraferma, carne umana. Sono sodomiti più di qualsiasi altro popolo. Non vi è giustizia fra di loro. Vanno tutti nudi. Non rispettano l’amore, né la verginità”[12].

L’intento del frate non era quello dei marinai conquistatori di comprare con qualche oggetto luccicante la loro amicizia, carpire la loro buona fede e rubar loro la terra, ma di convertirli perché avessero salva l’anima. E, dunque, Ortiz osserva: “Quando si insegna loro i misteri della religione cristiana, dicono che sono cose che vanno bene per i castigliani, ma che a loro non servono e che non hanno intenzione di mutare le loro usanze”[13]. Il frate sembra abbia difficoltà a prendere i pasti con loro sull’esempio di Gesù: “Mangiano pidocchi, ragni e vermi ovunque li trovino, senza farli cuocere”[14].

Ho riportato queste frasi dalle osservazioni di Tomas Ortiz perché nella ipersemplificazione ideologizzata con la quale si tende oggi a trattare l’argomento, il frate è incluso fra i razzisti spagnoli responsabili dei massacri.

Ma, pur accettando la tesi secondo cui molti protagonisti della cultura e della politica iberica abbiano assunto il ruolo di paladini della discriminazione razziale, non possiamo accettare il falso storico che vuole tutti gli Spagnoli del XVI secolo fautori, propugnatori o complici dei crimini coloniali. Basti solo ricordare l’opera del già menzionato Vescovo Bartolomé de Las Casas, un domenicano nato a Siviglia e passato alla storia come difensore dei nativi americani, che non si limitò a denunciare alla coscienza collettiva il sistema di sfruttamento degli Indios, ma si impegnò nel concepire ed elaborare un ordinamento umano per le colonie, partecipando alla redazione delle “Leggi Nuove” che furono ratificate da Carlo V[15]. Le nuove leggi di Las Casas abolirono le encomiendas, strutture di un’organizzazione economica agricola concepita come un sistema schiavistico-feudale che legittimava lo sfruttamento dei nativi.

Soprattutto è opportuno distinguere tra i tentativi di spiegarsi una realtà umana tanto diversa dalla propria da essere per certi versi inimmaginabile[16] e l’elaborazione di idee a partire dalla tesi erronea e preconcetta che esistano tipi umani inferiori per natura e che le differenze fra i popoli non siano da attribuire ad eventi storici e storico-geografici che hanno influito sullo sviluppo culturale e sociale, ma alla “razza”[17]. Sembra dai documenti che presso gli Spagnoli del XVI secolo vi siano state entrambe le cose, ma abbia prevalso l’uso di congetture circa una teoria di inferiorità, nel tentativo penoso e inaccettabile di giustificare l’ingiustificabile.

Sul piano antropologico l’incontro tra Europei e Indios è stato inizialmente caratterizzato dallo stupore per l’assoluta alterità reciproca, da una meraviglia che ha generato comportamenti efficacemente caratterizzati in questo esempio metonimico di Claude Levi-Strauss: “Nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta dell’America, mentre gli Spagnoli spedivano commissioni di inchiesta per stabilire se gli indigeni fossero o no dotati di un’anima, questi ultimi si occupavano di immergere i prigionieri bianchi sott’acqua per verificare, con una sorveglianza prolungata, se il loro cadavere fosse o meno soggetto a putrefazione”[18].

Il dominio cruento, barbaro fino al genocidio non è il piano politico del Re di Spagna, ma nasce dai capi dei conquistadores, ed è parallelo all’invio di missionari e all’edificazione di scuole e ospedali per istruire e curare la popolazione, non per sterminarla. E, quando il movimento di opinione guidato da Las Casas induce Carlo V a promulgare le nuove leggi, verrà proibito lo sfruttamento come servi-lavoratori dei nativi, cosa che invece continuano a fare gli eredi dei feudatari nel Regno di Napoli con i propri contadini, ad esempio. La discriminazione in base alla razza, non solo non appartiene alla maggioranza nella madrepatria iberica e viene combattuta dalla massima parte del popolo e del clero, ma soprattutto non è l’ideologia del potere.

Bartolomé de Las Casas applica ai popoli il principio cristiano secondo cui tutti siamo peccatori ma tutti possiamo diventare santi: “Non vi è nessuna nazione al mondo, per quanto siano barbari e feroci o depravati i suoi costumi, che non possa diventare in futuro un paese civile, i cui abitanti si comportino in modo umano e razionale”[19].

In altri termini, se si può accettare la convenzione storica di collocare la nascita dell’ideologia razzista moderna all’epoca del colonialismo, si deve però tener conto che si è trattato di un fenomeno del tutto diverso da quello sviluppato in seno al nazionalsocialismo del Terzo Reich, in cui il razzismo era nell’ideologia del potere ed era imposto a tutti i cittadini attraverso le leggi[20].

 

Joseph Arthur de Gobineau teorizza in un saggio di successo la disuguaglianza psichica fra le razze. Oggi le neuroscienze hanno fugato ogni dubbio ed eliminato ogni tentazione circa l’idea di attribuire valori o qualità umane a tratti genetici “razziali”: non solo hanno confermato l’assunto paleoantropologico della sostanziale identità del cervello di Homo sapiens negli ultimi 100.000-200.000 anni, ma hanno rilevato che le differenze individuali sono maggiori di quelle esistenti tra le varietà umane presenti sul pianeta. Inoltre, oggi sappiamo che il concetto di razza riferito a tipi della specie umana, così come è stato formulato e convenzionalmente impiegato in antropologia, sociologia e politica, non ha alcun fondamento scientifico[21].

Nel XVI secolo non vi erano queste certezze e, dunque, l’esistenza delle razze poteva essere considerata in buona fede una realtà. La questione da chiarire è come il concetto sia stato inteso, con quale calibratura e con quale valenza sia stato impiegato a quel tempo.

Nell’immaginario dei popoli di tradizione religiosa giudaico-cristiana, e quindi di tutta l’Europa, le tre grandi caratterizzazioni etniche basate sul colore della pelle erano riportate al racconto biblico dei tre figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Questo riferimento è, a mio avviso, molto interessante per due ragioni: 1) i tre figli di Noè sono capostipiti di stirpi originate da un unico padre; 2) le differenze culturali ed economiche dei popoli discendenti, e in particolare le maggiori o minori fortune, non sono attribuite a caratteristiche intrinseche dell’etnia, ma a un evento esterno: la benedizione impartita da Noè a Iafet, che conferì ogni beneficio alle stirpi discendenti di Cimmeri, Medi e Ioni (Genesi X, 2-5).

Si comprende che, su questa base culturale, la spiritualità cristiana imperante in Europa possa aver ispirato non solo sentimenti di fratellanza verso persone di etnia diversa, ma anche quella responsabilità missionaria all’istruzione e alla cura delle persone che, nonostante i crimini dei più spietati tra i conquistadores, ebbe luogo per secoli e idealmente prosegue ancora oggi nelle innumerevoli attività missionarie in America Latina[22].

Quindi, se è vero che presso i conquistatori si fece uso di teorie sull’inferiorità dei nativi americani, è pur vero che presso gli Spagnoli non vi erano veri filosofi o ideologi del razzismo, ma un’eterogenea produzione di pensiero nella quale si trovavano sia gli ingenui tentativi di spiegare una realtà umana così lontana da tutte quelle conosciute sia le dolose suggestioni concepite per disumanizzare le vittime di soprusi, torture e veri e propri massacri.

In realtà, per designare queste costruzioni interpretative e il pensiero politico basato sulle razze, Tzvetan Todorov suggerisce di usare il termine razzialismo[23].

Coloro che teorizzano la nascita dell’ideologia razzista all’epoca della conquista spagnola, per caratterizzarla citano in realtà opere del XIX secolo, epoca in cui realmente nascono le teorie razziste come le intendiamo oggi[24].

Il conte francese Joseph Arthur de Gobineau[25], autore del Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane[26], è passato alla storia per essere stato l’ispiratore di tutte le teorie razziste europee della seconda metà dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Secondo de Gobineau la razza negra tendeva naturalmente alla sensualità, mentre la razza gialla tendeva al materialismo e popolava l’Europa prima dell’arrivo dall’India della razza bianca o ariana, che possedeva naturale inclinazione all’astrazione, all’idealità, alla spiritualità e al senso dell’onore.

Non si tratta più di tentare di spiegarsi il perché delle peculiarità degli Indios o di costruire teorie ad hoc per cercare di ottenere attenuanti alla ferocia coloniale contro i popoli del Nuovo Mondo, con de Gobineau si assiste alla strutturazione di un paradigma interpretativo applicato all’umanità intera: tutta l’antropologia è declinata su base razziale. Secondo questo pensiero, la cultura, la filosofia, la religione e la politica non devono essere considerate quali espressioni di una civiltà, ma conseguenze della razza. Si legge infatti dell’esistenza di “una ineguaglianza nativa, originaria, innegabile e permanente fra le diverse razze”[27] responsabile di ogni aspetto della vita sociale, compreso l’ordinamento dei popoli, e per questo “le istituzioni sono effetti non cause”[28] del modo naturale e originario di essere delle genti.

Nel celebre saggio Razza e storia, Claude Levi-Strauss scrive: “Non bisogna dimenticare che Gobineau, storicamente considerato il padre delle teorie razziste, non intendeva comunque l’«ineguaglianza delle razze umane» in senso quantitativo, ma qualitativo: per lui le grandi razze primitive che formavano l’umanità ai suoi inizi – la bianca, la gialla, la nera – non erano tanto ineguali per valore assoluto, quanto diverse per le loro particolari attitudini. La tara della degenerazione si collegava per lui al fenomeno del meticciato più che non alla posizione di ogni razza in una scala di valori comune a tutte; essa dunque era destinata a colpire l’umanità intera, condannata, senza distinzione di razza, a un meticciato sempre più spinto”[29]. Possiamo aggiungere che il meticciato, pur indicato quale causa di “degenerazione delle razze”, non costituiva per de Gobineau motivo di discriminazione: era innamorato e fiero di sua moglie, che era meticcia.

 

L’etnocentrismo prima e il culturalismo poi avrebbero favorito il consenso alle idee razziste. Ma l’esistenza di qualche autore di teorie razziali da sola non spiega la diffusione e il successo di quelle idee durante il XIX secolo; soprattutto se si tiene conto dell’incompatibilità di queste idee con la cultura classica, ricca di esempi di schiavi appartenenti a popoli sottomessi, come erano gli Iloti spartani, che acquisivano per meriti la libertà e la cittadinanza, diventando celebri poeti o condottieri; e dell’incompatibilità sia con la visione della religione professata dalla maggioranza dei cittadini europei sia con le idee filosofiche e politiche del liberalismo francese e inglese.

L’opinione attualmente prevalente vuole che il terreno di coltura per l’attecchimento delle teorie razziali sia stato l’etnocentrismo.

L’etnocentrismo si può considerare una tendenza potenzialmente presente in tutti i popoli e documentata in tutte le epoche, al punto che qualcuno lo definisce un “vizio” “universale, onnipresente e onnipervasivo”[30]; ma credo, invece, che sia opportuno sottolineare gli aspetti di potenzialità e tendenza, che aiutano a comprendere il complesso fenomeno dell’attecchimento delle teorie razziali.

Erodoto, il grande ideatore della storia geografica del V secolo a.C., scrive che i Persiani erano “convinti di rappresentare essi il massimo della perfezione sotto tutti i rapporti fra gli uomini”. Il Persiano al-Biruni o Alberuni, contemporaneo di Avicenna e considerato antropologo ante-litteram, in una documentata monografia sulla civiltà hindu afferma che gli Indiani “credevano che non ci fosse un paese come il loro, una nazione come la loro, sovrani come i loro, una religione come la loro, una scienza come la loro”[31]. Si cita poi l’antico etnocentrismo cinese, ma si tratta in modo ancora più evidente di nazionalismo, quando affermavano che “l’Impero di Mezzo ospitava la sola Civiltà sotto il Cielo”[32]. Così si può riportare a etnocentrismo la convinzione dei Russi di essere il popolo teoforo destinato a servire l’intera umanità, secondo Dostoevskij[33].

Come è evidente da questi esempi classici e ricorrenti nella saggistica sociologica, si riferisce ad etnocentrismo quello che è culturalismo, nazionalismo e così via. È comprensibile che in una prospettiva politica la distinzione possa apparire irrilevante ma, se si cerca di risalire alle origini psicologiche e antropologiche della discriminazione in base a un fenotipo umano definito “razza”, non è ammissibile che si faccia confusione con altri fenomeni, quali l’avversione tra popoli per motivi religiosi o politici. Presso i Greci antichi l’appartenenza era definita da lingua, cultura e polis: quanti Africani, Turchi, Italici e Iberici definiamo “Greci” perché appartenevano a quella cultura? Gli imperi sono per definizione domini estesi oltre i confini geografici abitati da un popolo. L’Impero Romano costituisce per estensione e numero di etnie che vi facevano parte il migliore esempio della storia: la discriminante era la cittadinanza romana. San Paolo, ossia Paolo di Tarso, era Turco di nascita, Ebreo di adozione vissuto a Gerusalemme, prima da persecutore e poi da apostolo di Gesù Cristo, ma sempre cittadino romano.

La differenza non è minimizzabile: nella visione politica di antichi Greci e Romani un appartenente a un popolo esterno alla polis o esterno al territorio imperiale poteva acquisire la cittadinanza, nelle teorie razziste l’inferiorità della razza viene attribuita alla natura e si considera fissa, immutabile e indipendente dalla realtà del pensiero, della volontà e dei sentimenti della persona. Quanti cittadini tedeschi la cui famiglia aveva origini ebraiche, ma erano nati in Germania e amavano la patria che avevano in comune con Kant, Hegel, Bach e Beethoven, al tempo di Hitler furono deportati nei campi di sterminio, sottoposti alle più barbare e umilianti sofferenze e poi inceneriti nei forni crematori o asfissiati nelle camere a gas? Era la maggioranza dei massacrati nella Shoah. Naturalmente è evidente che nella bestiale distruttività teutonica il credo razziale fu solo un mezzo per eliminare col genocidio il sistema di potere economico non controllato dallo stato, ma è pur evidente che senza quel mostruoso pretesto il piano non si sarebbe potuto attuare.

Ma ritorniamo al culturalismo e al nazionalismo ante litteram citati come esempio di etnocentrismo dai sociologi. La radice è stata individuata dagli antropologi nella psicologia collettiva legata all’appartenenza al gruppo tribale: nei popoli che vivono come i nostri predecessori ancestrali, la qualità umana della persona sembra essere riconosciuta solo ai membri della comunità: “L’umanità cessa alle frontiere della tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio; a tal punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa gli uomini (o talvolta – con maggiore discrezione diremmo – i buoni, gli eccellenti, i completi), sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipino delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composti di cattivi, di malvagi, di scimmie terrestri o di pidocchi. Si arriva spesso al punto di privare lo straniero anche di quest’ultimo grado di realtà facendone un fantasma o una apparizione[34].

Senza soffermarci su un argomento che meriterebbe interi saggi, si può osservare che nell’identificazione per appartenenza al gruppo tribale si possono rilevare due aspetti funzionali: 1) il valore umano è riconosciuto solo a coloro che assicurano reciprocità e non allo straniero che potrebbe predare, prendere per sé e portare via, dove è la sua vita; 2) il pregiudizio negativo e disumanizzante nei confronti dell’estraneo prepara alla difesa della comunità contro un attacco e alla lotta contro un nemico.

Tenendo il filo del ragionamento conseguente alle illuminanti osservazioni di Claude Levi-Strauss si possono rintracciare le origini antropologiche dei pregiudizi connaturati nel culturalismo e nel nazionalismo delle varie epoche, ma ciò che contraddistingue le teorie razziste sviluppate sul modello di Joseph Arthur de Gobineau è l’identificazione della razza col colore della pelle. Non sfuggiva a nessuno che Celti, Iberici, Slavi e Italici provenivano da ceppi etnici differenti, ma per le teorie razziali erano tutti “bianchi”, così gli statuari Senegalesi, i piccoli Etiopi, i ciclopici rappresentanti di etnie centroafricane e i Pakistani erano tutti “negri” e, infine, Cinesi, Mongoli, Giapponesi e Tibetani erano tutti “gialli”. In tutte queste teorie, il colore della pelle, come in de Gobineau, è indice metonimico dei caratteri psichici fissati dalla natura. Non è superfluo rilevare che nel campo delle scienze mediche, biologiche e naturali una simile eresia era stata bandita da oltre un secolo e che, quando Francis Galton, cugino di Darwin, avanzò la tesi dell’ereditarietà dell’intelligenza fu subissato di critiche, confutazioni e dimostrazioni dell’influenza determinante dell’ambiente e dell’esercizio cognitivo sulle abilità mentali.

I sociologi seguono il criterio di queste teorie razziste quando identificano la cultura europea – che aveva in sé la matrice greco-romana fusa con quella giudaico-cristiana – con la razza bianca e l’esportazione della composita realtà culturale del Vecchio Continente con il “dominio della razza bianca”. La realtà è enormemente più complessa della riduzione di tutta la storia moderna al colonialismo dei bianchi “cattivi” nelle terre dei nativi “buoni”, e include una miriade di eventi che vanno dalle migrazioni dei popoli alle imprese periegetiche, dal nomadismo degli artisti alle guerre di religione.

Passando dal sostenere ragionevolmente che il culturalismo possa aver favorito la presa e la diffusione del razzismo, all’identificazione e alla confusione di culturalismo, nazionalismo e razzismo, si perde una distinzione a mio avviso cruciale: mentre le tesi del culturalismo e del nazionalismo sono sostenute in base ad un’evidente “scelta di parte”, le teorie razziste si spacciano come costrutti fondati su una realtà oggettiva e immutabile. Ed è proprio la dichiarazione della falsità di questo assunto, spiegando che non esistono peculiarità psichiche associate al colore della pelle come sosteneva de Gobineau, che può discreditare e svuotare di senso dalle fondamenta tutte le formulazioni e le pratiche discriminatorie razziste.

È compito doveroso di una cultura matura in senso civile trasmettere la conoscenza di un’identità biologica comune a tutta l’umanità, a sostegno del rispetto universale per tutti i membri della famiglia umana.

Ma nel citato saggio di Pellicani leggiamo: “Il fatto è che non è sufficiente proclamare l’unità ontologica della specie umana per cancellare le conseguenze, non sempre gradevoli, delle mille differenze mentali e comportamentali che caratterizzano i singoli popoli”[35]. Pellicani cade nello stesso errore degli ideologi dell’antirazzismo di maniera, inteso come “stile comportamentale corretto”, che per non discriminare nega la diversità: ma perché voler cancellare le differenze?

Ed è proprio questo il punto: per non essere razzisti non si devono negare le differenze. L’errore non consiste nella verità dell’esistenza di differenze, ma nella falsità del giudizio di valore negativo di una varietà umana rispetto a un’altra. Non è necessario negare la realtà e, mentendo, dire che non ci sia differenza di altezza tra Pigmei e Watussi (Tutsi), o che Claudia Schiffer e Naomi Campbell sembrano gemelle; per non essere razzisti non si devono giudicare le persone in base alla razza, a un fenotipo; non si devono creare gerarchie di valore, di rispettabilità e di stimabilità in base a un pregiudizio.

 

La comune inalienabile identità umana è un vincolo assoluto di realtà per la morale individuale e l’etica dei popoli. Il titolo di questo paragrafo è tratto dalla conclusione di un discorso del nostro presidente, in cui si focalizzava l’attenzione su come si sia giunti nella storia innumerevoli volte dalla guerra alla barbarie, dalle reazioni ai massacri, dalle teorie ai genocidi: un limite invalicabile deve essere appreso precocemente e consolidato nella mente per evitare che l’incapacità di sentirlo renda disumani, e questo limite consiste nel non poter negare l’identificazione con qualsiasi altro essere umano. Il baratro che si apre davanti a chi attraversi questa frontiera è rendere l’altro una “cosa”, reificarlo, il che vuol dire “uccidibile”.

La reificazione, diceva Giuseppe Perrella, non deve essere accettata nemmeno nel gioco; il compito di chi riflette è riconoscerne le origini e prendere le distanze da qualsivoglia forma di giustificazione: abituare la mente a pensare a un essere umano, anche il più lontano da sé, come un oggetto, prepara il terreno, nelle reazioni di avversione all’altro, alla possibilità simbolica di distruggerlo.

Nella mente di chi ha progettato il genocidio degli Ebrei c’era la ragione politica dell’eliminazione di un potere economico che il Terzo Reich non riusciva a sottomettere e a controllare. Nella mente della maggior parte degli esecutori immersi nelle tesi della propaganda nazista non vi era nulla che assomigliasse a un motivo, una ragione, un perché per quell’affamare, torturare, umiliare, macellare, asfissiare, bruciare nei forni crematori un popolo e tutti quelli che l’arbitrio nell’interpretare i deliranti decreti dittatoriali consentiva alle SS di assimilare. E così, di fronte allo scempio di esseri umani che aveva superato la più orrenda bestialità concepibile, di fronte alla richiesta di motivare innanzi alla storia l’immane tragedia che la fede dei superstiti ha chiamato Shoah, Franz Paul Stangl[36], ufficiale austriaco comandante SS dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, rispose: “Hier war kein warum” (“Non c’era alcun perché”).

Nella mente degli esecutori, già addestrati all’omicidio, non c’era il limite invalicabile dell’identificazione umana.

 

Due millenni di occasioni mancate per l’attuazione dell’universalismo dell’amore. I due pilastri dell’universalismo cristiano sono costituiti dalla pace e dall’amore esteso anche ai nemici, che supera l’amore del prossimo di tradizione ebraica veterotestamentaria. La storia delle istituzioni cristiane europee nasce quando cessa la persecuzione romana e, con l’editto di Milano del 313, Costantino concede la libertà di culto ai cristiani e, come primo imperatore convertito, si sottomette spiritualmente all’autorità della Chiesa. Ma, all’indomani della nascita, con il pretesto di risolvere il caso dell’elezione vescovile contestata di Ceciliano, Costantino convoca il Concilio di Arles (314) nel quale ottiene la scomunica per chi diserta e abbandona l’assetto di guerra permanente imposto dal potere imperiale: “Quanto a coloro che gettano le armi in tempo di pace, si dispone che siano scomunicati”[37].

Con questo terzo canone del Concilio di Arles si tradiscono la pace e l’amore per i nemici, allo stesso tempo[38]. È importante riflettere su questo punto: i cristiani seguono in primo luogo la legge divina e, per questo motivo, prima di Costantino erano stati accusati di essere “ai margini delle leggi dell’Impero” (parà nòmon), inducendo Tertulliano a dichiarare incompatibile il potere imperiale col magistero della Chiesa e Origene a difendere la legalità del cristiano nella dimostrazione che la Legge di Dio corrisponde alle leggi di natura; ma dal Concilio di Arles, in cui l’Imperatore cristiano ottiene un legiferare secondo i principi e gli interessi del potere politico-militare, comincia la serie dei compromessi tra dottrina e politica che dura tuttora presso le istituzioni dei paesi a maggioranza religiosa cristiana.

L’inclusione del pensiero cristiano nella visione politica o, se si vuole, l’inclusione delle ragioni del mondo – inteso in senso giovanneo – nella cultura cristiana, costituisce il passaggio cruciale per la sopravvivenza e la trasmissione storica del cristianesimo in Europa, perché realmente prima di Costantino i cristiani studiavano il commentario di Origene alla Lettera ai Romani in cui San Paolo raccomanda la sottomissione all’autorità in carica seguendo il “date a Cesare quel che è di Cesare”, ma il direttore della scuola filosofica catechetica cristiana di Alessandria afferma che l’uomo spirituale è colui che si è spogliato di ogni bene materiale come Pietro e Giovanni e in questa povertà, non avendo più niente da restituire a Cesare “non ha neppur più motivo di star sottomesso alle autorità in carica”[39].

Dunque, se con Costantino si supera l’opposizione fra luce e tenebre ravvisata da Tertulliano e il pessimismo di San Cipriano, che attribuiva l’origine di ogni potere politico alla violenza, si dà inizio a quel compromesso fra ispirazione pura evangelica del cristiano e secolarizzazione della Chiesa nel suo potere temporale che afferma nei secoli uno stile, rifiutato da una lunga schiera di santi, da Francesco di Assisi a Filippo Neri, fino ai santi poveri moderni.

Il principale tentativo di evitare quanto è accaduto dal 313 a oggi può essere ravvisato nella teoria dell’imitazione di Dio da parte del monarca. L’origine culturale, secondo gli storici del pensiero, è nella tesi del dovere di tendere alla perfezione sviluppato da Platone seguendo i filosofi pitagorici, ma nella pragmatica cristiana è chiaramente formulata da Pietro Patrizio nel dialogo filosofico Sulla scienza politica, scritto nei primi anni del regno di Giustiniano, da quello che Agostino Pertusi definiva il miglior pensatore di quell’epoca[40]. Ma la perfezione divina del sovrano non sembra sia stata mai neppure approssimata dalle figure storiche dei secoli seguenti, al netto delle celebrazioni agiografiche commissionate in varie epoche dalle teste coronate d’Europa e di qualche rarissima eccezione costituita da sovrane canonizzate.

La millenaria ricerca di compromessi tra vita cristiana e vita civile ha precluso la diffusione delle due istanze pure della pace e dell’amore incondizionato per tutti gli esseri umani[41].

La cultura cristiana di massa – o quel che ne rimane – non veicola come paradigma impersonato nei suoi interpreti questi due capisaldi, che rappresentano invece i due aspetti più importanti della sua dimensione sociale, e che sta a noi, sia da credenti che da non credenti persuasi del loro valore, insegnare ai bambini come fondamento morale della vita comune e trasmettere ai giovani come scuola di vita, dando esempi d’esperienza, se vogliamo realmente determinare quel cambiamento antropologico e far nascere quell’uomo nuovo che da cinquecento anni tutti ammirano nella simbologia artistica michelangiolesca della Sistina, ma pochi hanno il coraggio di proporre come modello ideale.

 

L’autrice della nota ringrazia il presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, Giuseppe Perrella, per le integrazioni a un testo sviluppato in gran parte su una riflessione comune che ha attinto a sue relazioni al Seminario sull’Arte del Vivere.

 

Monica Lanfredini

BM&L-15 aprile 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Era questa, in quel periodo, la frase preferita del padre della ragazza: “Sono passati trent’anni da Indovina chi viene a cena? E noi siamo la testimonianza che non sono passati invano”. Si riferiva al capolavoro cinematografico di Stanley Kramer con Catherine Hepburn e Spencer Tracy, che affronta il tema del matrimonio tra una ragazza americana di origine caucasica e un medico di origine africana.

[2] Una tesi opposta a questa opinione comune si trova in C. Delacampagne, L’invenzione del razzismo, Ibis, Pavia 1995.

[3] Luciano Pellicani, Jihad: le radici, p. 32, Luiss University Press, Roma 2004. Per le affermazioni qui riportate non vi è alcun riferimento bibliografico.

[4] Oviedo era il cognome della madre, Valdes del Padre. Nacque a Madrid nel 1476 e morì a Valladolid nel 1557. Molti storici americani lo chiamano semplicemente “Oviedo”. Oltre che da numerose opere di storia dell’arte, le notizie biografiche qui riportate sono tratte dal Dizionario Biografico Spagnolo della Reale Accademia di Storia, dalla voce biografica della versione spagnola dell’Enciclopedia Britannica, dai riferimenti biografici nelle sue opere principali, dai brani convergenti delle opere principali di storici americani su Pedro Arias, Pizzarro e altri conquistadores.

[5] Una ponderosa opera che fu ultimata solo nel 1552.

[6] Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, p. 85, Marsilio, Venezia 2012. Fra i tanti crimini compiuti da Pedro Arias vi fu la decapitazione di Vasco Nunez de Balboa, lo scopritore dell’Oceano Pacifico, che era il fidanzato di sua figlia Maria.

[7] Oggi diremmo “inviato” o “corrispondente” dall’America, ma in una realtà priva di telecomunicazioni voleva dire ripetere tante volte il viaggio di Cristoforo Colombo per fare i suoi report alla corte di Carlo V.

[8] “Siamo venuti per servire Dio, il Re e anche per diventare ricchi” dichiarano i conquistatori secondo Bernal Diaz del Castillo, cronista della spedizione di Hérnan Cortés del 1518 (Bernal Diaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, Madrid 1632: postuma).

[9] Ines de Suarez era una sposa andata alla ricerca del marito che, partito per cercare fortuna in America, non era più tornato. Dopo aver saputo della morte del coniuge, Ines si trova ad essere un’eroina per caso. Divenuta domestica di Pedro de Valdivia, gli salvò la vita e si legò sentimentalmente a lui. Fu lei a trovare l’acqua nel deserto per i bisogni della città. Pittori, incisori e disegnatori le hanno nei secoli dedicato opere celebrative in cui spesso è ritratta con le chiome al vento e la spada in pugno, come un angelo vendicatore, forte di un coraggio sovrumano.

[10] Gli Spagnoli vivevano in quelle zone in perfetta armonia con i nativi locali anche grazie all’aiuto che avevano ricevuto nel trovare l’oro a Valparaiso, così la difesa della città dal popolo montanaro dei Mapuche, che erano centinaia di volte più numerosi dei superstiti di Santiago, fu considerata un’impresa quasi soprannaturale compiuta dalla giovane donna. L’evento chiave secondo la storiografia spagnola fu l’idea di donna Ines, che stava curando i feriti, di decapitare sette cacicchi (capi tribali) che avevano preso prigionieri, per spaventare gli invasori. In un’incisione del XIX secolo i cacicchi prigionieri diventano schiavi degli Spagnoli decapitati con la spada dalla stessa Ines.

[11] La condanna etica del colonialismo non deve far dimenticare che si trattò di un fenomeno complesso. Karl Marx, ad esempio, giudicò l’imperialismo britannico un evento storico altamente progressivo, per aver attuato la “più grandiosa e l’unica rivoluzione sociale che l’Asia avesse mai conosciuto” (Marx e Engels, India, Cina, Russia, p. 76, Il Saggiatore, Milano 1970).

[12] Tzvetan Todorov, La conquista del Messico, p. 182, Einaudi, Torino 1992.

[13] Tzvetan Todorov, La conquista del Messico, op. cit., pp. 182-183.

[14] Tzvetan Todorov, La conquista del Messico, op. cit., idem.

[15] La Chiesa Cattolica riconosce Bartolomé de Las Casas quale “Servo di Dio”, e nel 2002 ha avviato il processo di canonizzazione. La sua opera più nota è Brevissima relazione della distruzione delle Indie (v. edizione a cura di Cesare Acutis – collana Oscar Classici: 302 – Mondadori, Milano 1997). In questa relazione il difensore definisce “Lupi affamati tirannici e crudeli” i conquistadores (v. nella riproduzione dell’originale: Trés brève relation de la destruction des Indes, p. 7, La Découverte, Paris 1987).

[16] Anche i nativi avevano il problema di spiegarsi l’inimmaginabile che si trovavano di fronte. Ad esempio, non avevano mai visto cavalli e, dunque, alcuni di loro avevano creduto che l’insieme cavallo-cavaliere fosse una creatura mostruosa. Così, le tribù che ancora non conoscevano i metalli e non avevano artigianato, non capivano cosa fossero le armature e si chiedevano da quali animali provenissero le corazze.

[17] Un esempio di pensiero razzista contemporaneo lo si è avuto negli anni ’90 quando Detroit, la celebrata capitale dell’automobile, entrò in una gravissima crisi economico-finanziaria: all’intervista per strada di cittadini americani sulle cause della crisi, alcuni rispondevano: “It is a black city running by blacks”, cioè: “È una città nera (negra) governata da neri”.

[18] Claude Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, p. 106, Nuovo Politecnico Einaudi, Torino 1979.

[19] François de Fontette, Il razzismo, pp. 54-55, Mondadori, Milano 1995. Questa affermazione sembra essere stata ripresa nella sostanza dalla dichiarazione dell’UNESCO del 1950.

[20] Anche nell’Italia fascista, con le leggi razziali, si ebbe la legittimazione dell’ideologia razzista, dell’inferiorità della “razza” ebraica (a volte definita in base all’origine etnica, a volte desunta dal credo religioso, altre dal cognome) e della colpa di appartenervi; colpa punita dalla legge.

[21] Già nel 1952, prima delle dimostrazioni della genetica molecolare, Claude Levi-Strauss precisa: “Quando cerchiamo di caratterizzare le razze biologiche in base a proprietà psicologiche particolari, ci scostiamo dalla verità scientifica sia se le definiamo in modo positivo sia se le definiamo in modo negativo” (Claude Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, op. cit., p. 99).

[22] Cito, ad esempio, l’American Leprosy Missions e l’impegno della nostra socia e Presidente dell’International Society of Neuroscience BM&L-International, Linda Faye Lehman.

[23] Cfr. Tzvetan Todorov, Nous et les Autres, pp. 211 e sgg., Seuil, Parigi 1989.

[24] È il caso di Luciano Pellicani, op. cit., p. 33.

[25] Morì a Torino nel 1882 colto da infarto mentre era alla stazione di Porta Nuova, ed è sepolto nel cimitero monumentale di Torino. Ambasciatore e viaggiatore cosmopolita, sposò una donna meticcia (creola) nata nell’isola caraibica della Martinica nell’arcipelago delle Piccole Antille.

[26] Joseph-Arthur Comte de Gobineau, Essai sur l’inegalité des races humaines (1853-1855) [v. edizione UQAC elettronica gratuita] ed. ital.: Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, Longanesi, Milano 1965.

[27] Joseph-Arthur de Gobineau, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, p. 80, Longanesi, Milano 1965.

[28] Joseph-Arthur de Gobineau, op. cit., p. 86.

[29] Claude Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, op. cit., p. 99.

[30] Luciano Pellicani, op. cit., p. 34.

[31] Alberuni’s India (Dr. Edward C. Sachau) in 2 Voll., Vol. I, p. 19, Munshiram Manoharlar Publishers Pvt Ltd, New Delhi 2015.

[32] Alan Peyrefitte, L’Impero Immobile, p. 570, Longanesi, Milano 1990.

[33] Cfr. Fedor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, p. 367, Garzanti, Milano 1943.

[34] Claude Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, op. cit., p. 106.

[35] Luciano Pellicani, op. cit., p. 34.

[36] Fece carriera come comandante del Castello di Hartheim, ad Alkoven in Austria, dove si assassinavano con monossido di carbonio i malati psichici e i portatori di disabilità, per garantire la “purezza della razza” secondo le leggi naziste. Sappiamo di lui da Gitta Sereny, che lo intervistò in carcere dal 2 aprile al 27 giugno 1971.

[37] Canone terzo del Concilio di Arles cit. in Giorgio Barbero, La Patristica in Storia delle idee politiche economiche e sociali diretta da Luigi Firpo, Vol. II, p.497, UTET, Torino 1985.

[38] Esula dall’argomento di questo scritto, ma è illuminante per comprendere la buona fede nei compromessi degli inizi, la lettura della teologia politica di Eusebio, Vescovo di Cesarea (263-339), che fu il primo storico della Chiesa: Eusebio crede nella provvidenzialità dell’Impero per la predicazione evangelica.

[39] Comm. In ep. Ad Rom., 9, 25, cit. in Giorgio Barbero, op cit., p. 495. In realtà, nei rapporti fra Stato e Chiesa la lezione più importante è data dalla sintesi di Sant’Agostino (secondo le premesse morali di Sant’Ambrogio), per la quale si rimanda all’efficace trattazione di Giorgio Barbero (op. cit., pp. 510-526).

[40] Cfr. Agostino Pertusi, La concezione politica e sociale dell’Impero di Giustiniano in Storia delle idee politiche economiche e sociali diretta da Luigi Firpo, Vol. II, pp. 542-543, UTET, Torino 1985.

[41] Si potrebbero citare intere biblioteche di saggi su questo argomento e sull’analisi storica degli ultimi secoli del secondo millennio.